Era solito rivolgersi nel corso delle sue pubbliche oratorie, al termine di ogni frase o tra l'una e l'altra, all'antico oracolo, come egli amava considerarlo, che giaceva lì poco distante dal suo globo pensante data anche la bassa statura che limitava le distanze tra il tronco e gli arti inferiori, tanto che un calzino, tirato su in fretta prima di salire con passo trionfante sul palco, giaceva per metà incastrato tra le flaccide natiche con effetto perizomico, che nella fattispecie corrispondeva nell'atto compulsivo di grattarsi ripetutamente il culo.
E così, come sempre aveva fatto in queste occasioni, ad ogni affermazione corrispondeva quell'ossessiva ricerca di conferma per le frasi appena pronunciate, intercalando al discorso la consultazione simultanea all'antico oracolo racchiusa nella domanda: "Che pensi Mì?", alla quale era sempre accompagnato un furtivo sguardo verso il basso in cerca di un impercettibile segno, di un bisbiglio a conferma e sostegno di quanto declamato alle platee.
Accadeva così, ad ogni occasione del genere, che il pubblico presente interpretasse quella frase, ossessivamente ricamata sulle labbra del loro leader ed anche a causa dell'assonanza dialettale lombarda, traducendola e cogliendola come segno inequivocabile di forza e speranza nella soluzione immediata di ogni pena o nella realizzazione del grande sogno, che ogni presente custodiva gelosamente nel proprio portafogli, riposto sapientemente nell'incastro creatosi tra il cuore e la mano tremante portata al petto, quando alla fine di ogni meeting, si alzava alto il canto dell'inno trionfale.
Al termine di ogni sforzo oratorio, e mai durante o prima, l'oracolo dava il suo responso al leader esausto, ed era sempre composto dal medesimo giro di parole, che suonavano così: "Chi fa domande a C. , dà risposte a C., usando un linguaggio del C. ed assumendo un espressione del C., questo è quanto testa di C."
Dal libro "l'oracolo impotente" di Fefè Ashign